Intervista del dicembre 2020
Cristina, 49 anni, educatrice presso il Centro Diurno
Il primo approccio con la grande emergenza sanitaria è stato fin da subito di relativa consapevolezza circa la gravità della situazione visto che il nostro centro diurno è gestito dall’Azienda Ospedaliera Bolognini di Seriate. Non abbiamo neanche pensato di tentare di mantenere aperti i nostri servizi; abbiamo chiuso tutto subito. La nostra prima reazione è stata quella di telefonare a tutti i nostri pazienti e dire che per il momento il centro era chiuso, di rimanere a casa e che li avremmo ricontattati telefonicamente appena possibile. C’era l’idea della gravità della situazione, ma, da parte di noi operatori, il non sapere esattamente come affrontarla. Le direttive erano comunque a breve termine, quindi navigavamo a vista con una serie di misure che venivano prese di settimana in settimana, ma abbiamo percepito fin da subito l’urgenza di fare qualcosa. Dovevamo trovare il modo di essere un supporto per i nostri utenti, che in quel momento non stavano affatto bene.
Le attività ambulatoriali sono state gestite sempre da remoto: alcune tramite videochiamata, altri, come le persone più anziane che non avevano i mezzi adeguati, si sentivano semplicemente al telefono.
Nel Centro Diurno in cui lavoro eravamo invece, a fine marzo, ancora in una fase di chiusura totale, ma restavano da gestire le persone con le patologie più gravi: la chiusura, la solitudine, la scarsa rete sociale acuivano i loro disturbi. Eravamo davvero confusi sul da farsi, finché ci hanno detto che per i casi più gravi potevamo accogliere qualcuno. Non molti, ma quelle due o tre persone che comunque richiedevano un’assistenza immediata. La paura era comunque tanta perché non sapevamo niente di questo virus (come si trasmette, cosa è necessario fare per evitare il contagio, i suoi effetti) ed è stata forse questa generale incertezza la cosa più difficile da affrontare. Alcuni colleghi si sono ammalati e abbiamo dovuto affrontare anche quel tipo di paura, ossia l’apprensione per la salute di chi lavora ogni giorno a stretto contatto con noi. D’altra parte, dovevamo organizzare l’arrivo di alcuni utenti con particolari esigenze all’interno del Centro Diurno; queste persone venivano da fuori e quindi non potevamo monitorarle direttamente, non avevamo alcun tipo di controllo o conoscenza su chi incontrassero e se mantenevano gli accorgimenti sanitari che ci venivano suggeriti. Tutta questa situazione ci ha fortemente destabilizzato. L’incertezza riguardava noi e i nostri utenti: qualcuno, pur stando male, non voleva né venire al Centro, né sentirci, qualcun altro avrebbe invece voluto raggiungerci, ma non sapeva come. Nei nostri pazienti abbiamo percepito tanta, tanta paura e soprattutto un atteggiamento di chiusura. Queste persone sono per loro natura già molto restie ad aprirsi all’altro e questa situazione li ha portati a chiudersi ulteriormente; in questa chiusura hanno però trovato tanta sofferenza. Inoltre, purtroppo, alcuni hanno contratto il Covid-19, il che di certo ha reso le cose ancora più complicate.
Poi, piano piano e con l’avanzare della primavera, abbiamo ricominciato a pensare al futuro a seguito della riduzione del livello di emergenza. Verso maggio/giugno abbiamo iniziato un percorso di graduale riapertura, seppur contingentata e secondo tutte le regole di igiene e distanziamento: al centro poteva accedere un numero limitato di persone in ciascuna stanza e per non più di due ore ciascuno. Siamo ritornati a una realtà apparentemente normale fino a novembre, quando poi tutto è stato rimesso nuovamente in discussione. Avendo però l’esperienza pregressa e le direttive precedenti, abbiamo gestito al meglio la situazione.
C’è da dire che la reintroduzione di norme più rigide a partire da fine ottobre e la suddivisione temporanea in diverse fasce di colore (tra rosso e arancione) ha mandato in tilt qualche nostro paziente, che non ha più voluto accedere alla struttura e si è nuovamente chiuso in casa.
La cosa che spesso sfugge a chi ci guarda da fuori è che noi dobbiamo gestire due aspetti: quello psicologico e quello sanitario. Se è vero che l’isolamento domestico protegge dalla malattia fisica, nello stesso tempo peggiora molte delle patologie di cui sono affetti i nostri pazienti. Abbiamo quindi sempre cercato di tenere in considerazione entrambe le esigenze.
Nei periodi di chiusura abbiamo messo in atto una modalità di comunicazione con i pazienti prettamente telefonica. Ciclicamente, nell’arco della settimana, sentivamo tutti i nostri pazienti per informarci sulla loro situazione. Facevamo un vero e proprio supporto telefonico. Noi operatori lavoravamo a rotazione, generalmente settimanale, così da garantire il servizio.
Anche dalle situazioni più complesse si possono però trarre degli insegnamenti positivi. Il fatto di essere obbligati a optare per una turnazione, mi ha spinta a ripensare al nostro lavoro con maggiore dinamicità: così, invece che rimanere fissi nel Centro per tutta la giornata, a volte è meglio ridividersi le attività giornaliere e concentrarsi su pochi interventi, ma ben pensati. Lo stesso vale per il lato clinico: i medici psicologi hanno scoperto una nuova modalità per rapportarsi al paziente, ossia da remoto, che potrà sempre tornare utile in casi di necessità. È stata proprio la straordinarietà di questo periodo a permetterci di migliorare anche sotto l’aspetto tecnologico, offrendoci così nuovi strumenti in grado di arricchirci anche professionalmente. Questa nuova informatizzazione del lavoro ovviamente non è stata semplicissima; durante le prime riunioni ricordo il caos generato dalle connessioni instabili, da strumenti non proprio adeguati e della non familiarità con quest’ultimi. Abbiamo dovuto installare le videocamere sui nostri PC, perché prima ne eravamo sprovvisti, così come munirci di portatili per garantire a tutti la connessione. Sono molto felice di questa possibilità di crescita, che in fondo mi ha permesso di scoprire nuove potenzialità. Tutti abbiamo imparato qualcosa e fatto un passo avanti dal punto di vista tecnologico; oggi sappiano che, nell’emergenza, possiamo avvalerci anche degli strumenti informatici.
È stato un anno molto particolare quello passato, quasi come avessimo vissuto in un limbo. Sembra a volte di esserselo perso, di non aver vissuto, perché siamo rimasti fermi tanto nelle nostre case o luoghi d’appartenenza, quanto nella crescita e nelle esperienze. Di positivo c’è che abbiamo rallentato i ritmi e che, di conseguenza, abbiamo avuto più tempo per pensare. Questo tempo lento ci ha portato a riflettere maggiormente sulle relazioni, sulle dinamiche personali e all’interno dei propri ambiti famigliari. Abbiamo dovuto pensare a ciò che rimaneva, e non per tutti è stato positivo; tanti, purtroppo, si sono ritrovati soli e anche questa presa di coscienza penso sia stata pesante per tante persone. Se prima potendoti spostare potevi incontrare chi volevi, in quei mesi tutto ciò che avevi era quello che ti circondava.
In questo periodo ho poi avuto modo di riscoprire molti dei nostri utenti. L’uso del telefono, che da mezzo di brevi comunicazioni è diventato lo strumento attraverso cui parlare, ha permesso a molti utenti che erano sempre stati taciturni e chiusi di aprirsi e diventare dei gran chiacchieroni; la voglia di parlare con qualcuno ha probabilmente cambiato il loro usuale modo di confrontarsi con l’altro. Nel rapporto coi colleghi il cambiamento più significativo è stato proprio nell’aspetto più fisico. In primo luogo, ovviamente, la distanza che tutti conosciamo, d’altra parte l’obbligo a indossare mascherine, guanti, camici. Ci siamo abituati a una distanza fatta di velature e strati, non solo di lontananza. Adesso le direttive sono cambiate e anche la paura è diminuita, ma le nuove abitudini che abbiamo dovuto far nostre hanno cambiato il modo di relazionarci all’altro, collega o utente che sia.
Al di là del positivo che cerchiamo all’interno di questo periodo, da un punto di vista professionale non possiamo nascondere di aver avuto dei grossi limiti. Il progetto che seguo presso la Biblioteca Centro Cultura di Nembro, come ho già accennato, è andato a singhiozzo e queste temporanee sospensioni hanno influito molto sulla mia quotidianità lavorativa, perché io lì ci investivo gran parte del mio tempo e delle mie energie. Anche le ragazze che usufruiscono di questo progetto si sono trovate un po’ “abbandonate” perché sono rimaste a casa e senza più questa possibilità di relazionarsi col mondo esterno. In questo periodo a loro è rimasto infatti solo l’ambiente famigliare.
Una differenza fondamentale tra le due fasi di chiusura (marzo/aprile, novembre/oggi) è che nella prima c’è stata la paura, specialmente nel nostro territorio. In quel periodo stavamo infatti vivendo una situazione emotiva pesantissima con un numero di decessi altissimo. Il trauma del continuo suono delle ambulanze, per esempio, è qualcosa che mi è rimasto ancora oggi: quando sento le sirene dell’ambulanza mi viene una sensazione di blocco allo stomaco, che prima non avevo mai vissuto. Ci vorrà del tempo per riuscire a non vivere in modo così angosciato questo suono. Nella seconda fase, invece, la paura era più contenuta, sia per i numeri, inferiori, che per la consapevolezza acquisita.
A livello strettamente familiare e personale ho apprezzato il clima di unione, anche se so che la chiusura per molti è stata vissuta in modo del tutto diverso. Però l’aspetto positivo è presente solo se questa situazione la si circoscrive in un periodo relativamente breve; anche la famiglia per ben funzionare ha bisogno che ciascun membro abbia continue relazioni con l’esterno. A livello lavorativo, invece, l’unico aspetto positivo è stato forse quello di avere più tempo per riflettere, progettare e confrontarci fra colleghi. Non avevamo la necessità di lavorare sull’oggi, il ché ci ha permesso di dedicare un tempo maggiore alla progettazione.
I nostri pazienti, invece, si sono sicuramente impoveriti tantissimo. Loro hanno bisogno di allenamento quotidiano, di mantenere le abilità che hanno; tant’è che al rientro dal primo lockdown abbiamo notato una diminuzione molto grave della abilità precedentemente acquisite, sia di quelle relazionali che di quelle manuali. Molti non stanno frequentando il centro neanche ora, nella chiusura invernale, e scopriremo che cosa è accaduto solo quando riprenderanno a venire. Li abbiamo lasciati con delle abilità, ritornano e non le hanno più: devono ricominciare da capo. Per alcuni nostri utenti, per esempio, il fatto stesso di venire al centro è una forzatura, imposta da una necessità medica. Perdere quest’occasione di movimento e confronto è per loro una perdita enorme di capacità, perché poi ritornare ad affrontare il fuori diventerà complesso: anche solo ricominciare a prendere il tram per molti sarà difficile.
Ci confrontiamo dunque con i due lati della medaglia: c’è l’utente che, impressionato dalle notizie che continua a sentire o leggere, non vuole più uscire di casa e quello che invece si fa solo sfiorare dalle cose e continua la sua quotidianità come se nulla fosse. Il nostro lavoro oggi è anche quello di mediare fra questi due opposti. Ci siamo sempre resi disponibili per i nostri utenti, invitandoli a contattarci ogni qual volta ne sentivano il bisogno. Abbiamo fatto tutto il possibile per fargli capire che non erano da soli, per non farli mai sentire soli, e per loro questo è stato davvero importante.
Facendo parte dell’azienda ospedaliera, noi del Centro Diurno abbiamo sempre seguito le direttive imposte dal dipartimento e/o dal primario. All’inizio non è stato semplice capire nel pratico con quali attività potessimo andare avanti e come dovevamo modificarle o quando era necessario annullarle; oggi abbiamo invece imparato a gestirci meglio. Stiamo funzionando così come sta funzionando la sanità: a regime ridotto, ma costante. Sono aumentate le richieste di consulenza psicologica, tant’è che i nostri psicologici sono molto sotto pressione. Il dato è presto giustificato dalla situazione complessa che stiamo vivendo e che in molti casi spinge le persone a chiedere un supporto di cui prima non sentivano il bisogno.
Quello che più mi ha colpito in questo periodo è la solitudine, davvero tanta, che qualcuno è stato costretto a vivere a seguito di questa situazione di isolamento e che non porta mai a qualcosa di positivo. Penso ai nostri pazienti, a quelli che sapevamo più soli, con poche reti e ai quali abbiamo dedicato maggiore attenzione. La solitudine che ho visto e percepito mi è rimasta dentro; ciascuno di noi ha bisogno di relazione e vivere l’abbandono che subivano alcuni di loro mi ha colpita nel profondo. In questa situazione di emergenza c’è stata una solitudine impressionante all’interno della nostra comunità, non dimentichiamoci mai delle persone che sono sole.